Gli imperdibili di Tortuga #10
Hans Tuzzi vuole uccidere Norberto Melis: nostalgia preventiva di un personaggio; gli intellettuali della Chiesa Rossa; spoiler, la serie della settimana; il rumore della civiltà
«Melis: nostalgia preventiva di un personaggio» di Rodolfo Grandi
Erano i primi anni del nuovo millennio, a Milano: qualche giorno a settimana lo trovavi nel suo ufficio alle splendide edizioni Bonnard – lavorava a fianco di quel gran genio di Vittorio Di Giuro, editore, che, con occhio di falco, pubblicava libri che nessuno osava. Ai suoi piedi Dora, cane nobile e amica inseparabile. Lui, bibliofilo vecchio stile, saggista, un incarico da professore di storia comparata del libro all’università di Bologna, aveva appena cominciato la carriera di scrittore di gialli. Il suo nome non era ancora leggenda. Oggi, invece, vent’anni dopo, Adriano Bon, con lo pseudonimo di Hans Tuzzi, è un autore da 100.000 copie. Così recita la fascetta del suo ultimo titolo: Nella luce di un’alba più fredda (Bollati Boringhieri, 208 pp., 15 euro).
(Ogni volta, anche questa volta, è un enigma seducente che si rinnova: la malia dell’investigatore gentiluomo, il borghese di tradizione antifascista Norberto Melis, vicequestore e protagonista dei romanzi gialli di Tuzzi, con una famiglia di personaggi seriali intorno. Soprattutto vale lo scenario: Milano, metropoli in trasformazione, alla fine degli anni ’80, dopo il terrorismo, un po’ patetica nel suo desiderio edonista ed internazionale, con i bar di periferia dove ancora si parlavano i dialetti, i palazzi liberty con le portinerie, le sale corse, l’ippodromo a San Siro come un nume tutelare corrotto, e poi la questura…
«Gli intellettuali della Chiesa Rossa» di Bianca Fenizia
Convenevoli, attualità e posate d’argento. Luis Buñuel l’aveva capito con qualche decennio d’anticipo, grazie a L’angelo sterminatore: non c’è miglior modo per inchiodare una classe sociale ai propri difetti se non lasciarla senza via di scampo a una festa. Se il regista spagnolo sceglie di intrappolare l’alta borghesia in una cena di gala, prigioniera delle proprie eccentricità e istituzioni, Ettore Scola quasi vent’anni più tardi cattura e concentra l’indagine ne La Terrazza (1980) sui «privilegiati depressi»: gli intellettuali. Durante un ricevimento, giornalisti, critici e sceneggiatori si provocano e tartassano, si celebrano, si compatiscono e cadono, discutendo, in banalità da chiacchiera a cui non pensano di appartenere. Se uno scontro sembra portare finalmente a un rovesciamento delle loro dinamiche e a una resa dei conti, ecco che puntuale irrompe nella scena un deus ex machina per disinnescare la tensione, lo stratagemma che Ugo Gregoretti introduce guardando in camera: «A questo punto io farei arrivare una padrona di casa che dice: il pranzo è servito».
E proprio come i borghesi di Buñuel, che per superare la crisi si rifugiano in una cattedrale, cercando nella preghiera e nel clero una guida e un’istituzione, anche gli smarriti intellettuali di Scola…
«Sky Rojo, i nipotini di Almodovar» di Amleto De Silva
«Per le generazioni più giovani è difficile immaginare quale fosse davvero la vita in quell’epoca di ideologie totalitarie. Gli ideali condivisi che agitavano eserciti, movimenti politici giovanili o sindacati, oggi sono praticamente scomparsi. Le passioni e gli odi di quell’epoca sono agli antipodi del rispetto, dei diritti e della sicurezza delle società di oggi. Quel passato è davvero «un altro mondo». La Spagna stessa è cambiata completamente in pochi decenni. La sua uscita dalla guerra civile e dall’era franchista è stata una delle trasformazioni più sorprendenti e impressionanti di tutta l’Europa. Ecco, forse, perché non è saggio tentare di giudicare il terribile conflitto di settant’anni fa con i valori e gli atteggiamenti progressisti che oggi noi accettiamo come normali. Dobbiamo fare uno sforzo d’immaginazione per cercare di comprendere le convinzioni e gli atteggiamenti del tempo: sia i miti nazionalisti cattolici sia il timore del bolscevismo della destra sia la convinzione della sinistra che la rivoluzione e la redistribuzione della ricchezza avrebbero portato alla felicità universale». (Antony Beevor, La guerra civile spagnola, RCS libri)
Premetto: gli spagnoli mi stanno antipatici. Così, mi stanno antipatici e basta. Però sono stato un fan del primo Almodovar: per intenderci, pre-donnesullorlo, quello della movida madrileña, quando movida non significa soltanto un branco di fessi intorno a uno spritz ma rinascita culturale. Da Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio Matador e fino allo stupendo La legge del desiderio, Almodovar ha rappresentato una sincera, autentica rivoluzione…
«Il rumore della civiltà» di Gioacchino Criaco
Quelle macchine rotanti che hanno l’aspetto di un futuro asettico, inanimato, pauroso, che girano divorandosi la creta a cemento, il granito metallico. L’unico segno di vita è uno stridio di cingoli, un percuotere di tamburi. Non è bello il rumore della civiltà se lo senti dalla punta di un picco distesa a piano, di notte sotto un cielo che incombe di luci calde segnato dal canto di un cucco confuso, insonne. Andare o stare? Tornare o rimanere? Già se te lo chiedi il tuo posto non è qua. Vivere in campagna, montagna, collina, non può essere una scelta, solo un’impellenza. Andarsene fuori dai palazzi, dalle vie del centro è una stupidaggine o una impresa da geni, non serve il cervello per scappare, bisogna averci il fisico.
E bisogna avere le orecchie, perché se non lo senti che la civiltà è fondamentalmente un rumore continuo, fastidioso, del tipo delle talpe della terza galleria di valico, non hai bisogno di fughe…
Alla prossima!