«Né semplificazione né retorica: per una memoria (vera) di Giovanni Falcone». Un editoriale di Piero Melati
Questo è un articolo che mi costa molto. Un tentativo di analisi che, anzitutto, fa male a chi lo scrive. Ma ha detto qualcuno che questo sarebbe il compito della scrittura: non rassicurare, bensì dubitare, scombinare. Con la parola. C’è, a questo proposito, una bruttissima parola, a Palermo, per calunniare l’annuale ricorrenza delle stragi del 1992. Un nomignolo fastidioso, urticante, irriverente: le Falconeidi. Se provi a fare una ricerca su Google, scoprirai che l’infangante epiteto non si trova su internet, dove pure puoi rintracciare tutte le parole del mondo. Quel detto inventato, greve, velenoso, privo di vocabolario, e persino di dignità, fa parte infatti di una storia nascosta, catacombale, umorale, persino insidiosa, ma non per questo meno reale. Eppure mai nessuno vuole che questa storia emerga all’evidenza, tanto è irrispettosa e imbarazzante.
Il termine Falconeidi ha infatti come scopo il dileggiare quel considerevole apparato retorico e celebrativo messo in campo, attraverso molteplici forme di ritualità, per ricordare i martiri degli eccidi mafiosi di quel tempo.
Peggio: viene pronunciato anche da piccoli mafiosi e collusi o aspiranti tali di oggi, al fine di mostrare disprezzo verso chi combatté i loro antenati…
«La bellezza è degli sconfitti. Mondo, lingua e storie di Giovanni Falcone: un ritratto» di Marco Ciriello
Dice Manlio Sgalambro: «Solo nel momento felice dell’arte quest’Isola è vera», e Giovanni Falcone, come solo Franco Scaldati, è stato un momento felice dell’arte della Sicilia, rendendola vera. Tanto che il cinema e il teatro successivi – da anni – provano e riprovano a rifarlo senza riuscirci, perché sono sovrapposizioni: le sue immagini inarrivabili – mentre fiero entra nel palazzo di giustizia di Palermo, mento e petto in fuori, ricorda Salvador Allende che entra a La Moneda – e i suoi testi irraggiungibili – pensate alla frase ripetuta sulla paura, ma anche alle sue analisi sulla mafia con il suo essere un fenomeno umano con inizio e fine, alla scrittura a mano dei verbali di Buscetta – con buona pace delle critiche dei Sandro Viola.
Era fuori sincrono, in anticipo, per questo incompreso, tanto che alcuni suoi detrattori ora e solo ora vedono il quadro, e altri suoi coevi ne diedero una proiezione letteraria: Mario Pirani lo paragonò ad Aureliano Buendía, personaggio di Gabriel García Márquez, Giuseppe Ayala all’Alighieri: «Buscetta è Virgilio, Dante è Falcone, Cosa nostra è l’Inferno», il boss Michele Greco gli diede del Maradona…
«1981 - 1992: storia di un'amicizia, intervista a Giuseppe Ayala» di Bianca Fenizia
C’è un profilo in controluce in una delle foto più rappresentative di Giovanni Falcone: il magistrato ride in ogni angolo del viso appoggiato delicatamente alla mano, mostrando, inconsciamente ma con eleganza, un Camel Trophy in titanio. Sembrerebbe l’immagine perfetta di una pubblicità per orologi, invece lo scatto ritrae una conversazione tra due persone che non sono semplici colleghi, ma grandi amici. È quel profilo in controluce, quell’ombra che attraversa sulla sinistra il ritratto di Falcone ad aver provocato l’espressione divertita per una battuta sagace, un commento ironico o un’osservazione caustica. La stessa sagoma che lo accompagna sulle colline in Brasile, in giacca e cravatta per le vie di Parigi e vicino al mare prima di tuffarsi. Un comprimario che non conosce lateralità, Giuseppe Ayala. Se la storia dell’antimafia fosse narrata come una tragedia di Eschilo, il pubblico ministero del maxiprocesso ne sarebbe il nunzio, ma la sua requisitoria non troverebbe spazio sul palco di un teatro greco, ma nell’aula bunker di Palermo, o come qualcuno l’ha definita, l’astronave verde.
Se in Edipo re è proprio il messaggero a descrivere l’accecamento del re di Tebe e il suicidio di Giocasta, è Ayala a togliere in aula con voce ferma, durante l’udienza dell’11 aprile 1987, la cecità sulla mafia, svelandone il suo funzionamento, struttura e apparato. Un’incisività dell’accusa e conoscenza dettagliata del fenomeno, reso possibile dalla stretta collaborazione tra giudice istruttore e pubblico ministero. Un legame di lealtà, fiducia e stima che va dalle cene tra amici alle aule di tribunale, un rapporto siglato da determinazione e ironia. Dopo quasi trent’anni dalla strage di Capaci, è ancora Giuseppe Ayala, il messaggero, la voce che ricordava al maxiprocesso che l’accusa in realtà aveva difeso la dignità del popolo, a continuare a tracciare il ritratto di Giovanni Falcone. Un racconto importante soprattutto per i tebani contemporanei.
Qual è stato il suo primo incontro con Giovanni Falcone?
«Lo ricordo perfettamente. Ho iniziato la mia carriera facendo il pretore in una città vicino Caltanissetta e poi…
«"Nient'altro che la verità": stroncatura per un'epica mancata» di Gioacchino Criaco
Il dramma di Giovanni Falcone era di essere contemporaneamente Ulisse e Ettore senza poter essere Achille, di non aver mai abbandonato Itaca per poterne fare ritorno, perennemente assiso sopra le mura di Troia a studiare una difesa impossibile, perennemente a testa in su a scrutare crepe nella difesa di un muro impossibile da scalare, perché lui era Troia e la Grecia, sapeva tutto dell’una e dell’altra. Avrebbe inchiodato a una croce Maurizio Avola e una a una avrebbe scarnificato le sue verità, riducendole a ossa abbandonate dalle fiere sulla rena di una spiaggia: sbranate dal vento e dal sale, lucidate dal sole come i resti di mostri preistorici. L’avrebbe lasciato parlare, avrebbe fumato sigarette a migliaia, e all’ultima gli avrebbe sorriso, accartocciato il pacchetto l’avrebbe buttato nel cestino, «Signor Avola, adesso mi dica la verità, quella vera». Era liberatorio crollare davanti a lui, rivelarsi per quello che si era e farsi riportare al banco, ringraziare per il voto basso. Avesse raccontato a lui le sue verità, ne sarebbe uscito un libro col dipinto del pentito Avola. E pure Giuda se si fosse trovato davanti a Falcone, dopo aver parlato di disegno divino, di necessarietà del proprio tradimento, di eroismo nell’accettare il ruolo, avrebbe riconosciuto nel denaro la sua collaborazione con la Legge dell’Impero.
Michele Santoro non ce l’ha la capacità dell’inquisizione gentile di Falcone né possiede le strutture narrative di Omero, da Nient’altro che la verità (Marsilio, 400 pp., 18 euro) non escono fuori due Ciclopi…
«Il vangelo della speranza: ripartire da 3P» di Fulvio Scaglione
A padre Pino Puglisi spararono a Palermo, nel quartiere Brancaccio, davanti al portone dello stabile di case popolari in cui abitava in Piazzale Anita Garibaldi, il 15 settembre 1993. Era il giorno del suo 56° compleanno. Accorsero i vicini, arrivò l’ambulanza, si radunò una piccola folla. E se c’è un particolare che tutti i presenti ricordano di quei momenti terribili è questo: che padre Puglisi, riverso là a terra e sanguinante, aveva le scarpe bucate. Un’immagine che mi ha fatto sempre tornare alla mente l’affettuosa descrizione che di lui dava il fratello Franco: «Mio fratello era piccolo, ma aveva il 43 di piede e mani grandi così. In più, aveva le orecchie a sventola e la testa pelata».
Povero, piccolo, umile. Senza scorta o protezioni di sorta. Un prete che raramente alzava la voce e sventolava la bandiera dell’antimafia ma lavorava come un mulo in una parrocchia di periferia.
Perché, dunque, la cosca dei Graviano, che dominava Brancaccio, sentì il bisogno di farlo eliminare dai suoi due killer più spietati ed efficienti, Gaspare Spatuzza e Salvatore Grigoli, due che avevano decine di omicidi sulle spalle? In quegli anni la mafia, proprio con il contributo dei Graviano e dei loro uomini, da un lato dava l’assalto allo Stato (Salvo Lima viene ucciso il 12 marzo 1992, il giudice Falcone il 23 maggio, il giudice Borsellino il 19 luglio…
Alla prossima!