Gli imperdibili di Tortuga #18
Giuliano Scabia e Paolo di Stefano, un dialogo; l'ultimo romanzo di Colum McCann; Cronaca delle Baracche, Nelida Milani letta da Bruno Nacci; Rino Gaetano quarant'anni dopo
«Il racconto del teatro di Scabia» di Paolo Di Stefano
Il 21 maggio è morto Giuliano Scabia – poeta, drammaturgo, scrittore –, lo ricordiamo con due interviste di Paolo Di Stefano, questa è la prima, tratta da Idra, semestrale di letteratura (n. 6, 1993).
Giuliano Scabia, tu hai avuto modo di partecipare giovanissimo alle riunioni del Gruppo 63, sia pure marginalmente: come sei approdato, dalla provincia veneta, a quell’esperienza e quali insegnamenti ne hai tratto?
«Bisogna premettere che arrivai a Milano nel ’60, dopo essere stato impegnato a Venezia nell’ambito studentesco. A Venezia ho stabilito i primi contatti con pittori, scrittori e uomini di teatro che venivano dalla Biennale.
C’era una situazione politica effervescente, che mi ha subito affascinato. Ma soprattutto da Venezia, grazie alla Biennale, passavano le grandi personalità artistiche e culturali: lì ho incontrato, per esempio, Giacometti, Evtušenko, la compagnia del Berliner Ensemble. Conobbi Luigi Nono per un semplice caso. Avevo sentito il suo Canto sospeso alla radio e mi aveva colpito la pasta sonora, la ritmica, l’espansione della musica nello spazio. Una sera, nel ’61, mi trovavo sulle scale della Fenice, per assistere a un suo spettacolo, Intolleranza. Ma si preparava il caos…
«McCann e gli infiniti lati di Gerusalemme» di Bianca Fenizia
Le mille e una notte è il libro che Rami Elhanan, uno dei grafici pubblicitari più richiesti di Israele, ama leggere insieme a sua figlia Smadar. È suo il volto, un ritratto fotografico da bambina, l’immagine utilizzata dal padre in un celebre manifesto per il movimento della pace: «Apparve nelle sedi sindacali, nei centri studenteschi e nei kibbutz di tutto il paese. Lo si poteva trovare affisso nelle sedi della sinistra, nei corridoi delle scuole, nelle panetterie, nei bar e nei negozi di falafel». Come sarà la vita in Israele quando Smadar avrà quindici anni? recitava la scritta, ma Smadar non riuscirà neanche a compierne quattordici, restando uccisa in un attentato a Ben Yehuda Street, a Gerusalemme. Mille e una, una cifra che non va presa alla lettera: se mille in arabo corrisponde a innumerevoli, mille e una vorrà equivalere a un numero infinito. Infinite come le volte che Bassam Aramin sente ripetere le tabelline di sua figlia, Abir, la mattina del giorno in cui verrà uccisa da una pallottola di un soldato israeliano, senza riuscire ad ottenere la promozione in matematica.
Infiniti quanti i lati del poligono, Apeirogon, che dà il titolo al romanzo di Colum McCann (Feltrinelli, pp. 528, 22.00 euro, traduzione di Marinella Magrì).
«Una insanguinata linea di frattura storica» di Bruno Nacci
Ci sono ancora editori, verrebbe da dire, e scrittori degni di essere letti. Uno di questi è Nelida Milani, che nel primo tomo della saga “Cronaca delle Baracche” (Ronzani, pp. 376, 18.00 euro) ci riporta indietro nel tempo, o meglio in luoghi che hanno il sapore di un altro tempo, anche se così vicini, perché come osserva acutamente: «Mi ero convinta che in luoghi diversi si vive in epoche diverse».
I luoghi sono quelli dell’Istria, Pola, la città amata che subisce il destino di chi vive sulle frontiere, passando di mano in mano dall’Austria all’Italia, dall’Italia alla Jugoslavia, dalla Jugoslavia alla Croazia… e lungo questa drammatica e insanguinata linea di frattura storica, la scrittrice insegue con affettuosa e ironica partecipazione le vicende di famiglia (delle famiglie), del rione (il quartiere polesano delle Baracche), annotando nel trascolorare dei giorni i minimi accadimenti della piccola comunità, che si vanno a depositare, con grazia dolente così rara da trovare, nel calendario della sua ribalda gioventù.
Scrive nella intensa introduzione il curatore, Mauro Sambi, a sua volta poeta di origine polesana: «Quella di Milani è una voce germinativa, evocativa, di volta in volta delicata, dura, esilarante, straziante…
«A proposito di Rino Gaetano» di Mario Colella
È una storia che inizia nel dopoguerra, in un sud che è ancora quello dell’emigrazione e dei sassi di Matera denunciati da Carlo Levi e definiti da Togliatti «una vergogna nazionale». Si conclude all’alba degli anni Ottanta della plastificazione culturale, sulla Via Nomentana. In mezzo, c’è tanta Roma, che è ancora sud, ma anche un po’ nord. Almeno rispetto alla fenicia Siracusa o alla greca Reggio Calabria. E all’altrettanto greca Crotone.
Uno dei nomi dell’avversione di Alberto Fortis per Roma nelle sue canzoni è Vincenzo Micocci: «Vincenzo, io ti ammazzerò».
Micocci, che appunto era romanissimo, fu discografico di quelli evoluti, che negli anni Settanta si guardavano attorno, cercavano di comprendere le trasformazioni in atto nel mondo musicale e prima ancora nella cultura dei giovani.
Dopo esser transitato per la Ricordi, nel 1970 aveva fondato l’etichetta discografica IT che lanciò, tra gli altri, Antonello Venditti e Francesco De Gregori, scoprendo alcuni tra i maggiori talenti di quella generazione…
Alla Prossima!