Gli imperdibili di Tortuga #21
Una bocciatura per "Yoga" di Carrère; la biografa di Flannery O'Connor sulla nuova traduzione di Gaja Cenciarelli; perchè la Bielorussia è un rebus; la serie della settimana;
«Yoga: diario formato noia» di Marco Ciriello
Carrère non meditava, ora medita. Da giovane incontra William Hurt che meditava già e con l’aria figa di chi ha visto l’Asia e l’altro mondo: gli dice che vuole essere una persona migliore. Lui, giovane e coglione, gli chiede perché ci tiene tanto. Hurt fa il piacione, cincischia, poi gli sussurra: per essere un attore migliore. Carrère capisce che per essere uno scrittore migliore deve diventare una persona migliore. Si mette a meditare. Poi ci scrive un libro, ma non guarisce. In mezzo ci infila un mucchio di cose, persino uno spot per la scuola Holden di Baricco, dalla strage di Charlie Hebdo al dramma dell’emigrazione, dal suo ricovero in ospedale alle sue scopate, per poi dirci – sul finale – che due delle donne raccontante non sono proprio vere, forse per mettersi in guardia dagli attacchi che ha già ricevuto, preoccupandosi di un problema che non esiste: non conta la verità, ma la sua restituzione. Se persino Carrère si preoccupa della verità, come Marco Travaglio, allora è finito tutto.
Un libro di dubbi, malattie, dolori e meditazioni, questo Yoga (Adelphi).
«Flannery O’Connor, zoticona tomista che voleva un mondo di peso e spessore» di Fernanda Rossini
Il 1952 è l’anno di svolta nella vita personale e professionale di Flannery O’Connor: pubblica il suo primo romanzo e riceve la conferma che la malattia che la sta tormentando è il lupus che le ha ucciso il padre solo pochi anni prima. Ad entrambi reagisce con la forza e la determinazione che le sono proprie: considera infondate ed immotivate le feroci critiche che riducono gli sforzi di sette anni ad un’opera prima di sicuro valore sul piano artistico, ma peraltro oscura ed inquietante. E relega la malattia ad un mero accidente esterno, ininfluente: «le energie per scrivere non mi mancano e siccome se c’è una cosa che devo fare è appunto quella, riesco, con un occhio guercio, a prenderla come una benedizione».
In ogni caso, affronta e dimentica le difficoltà sedendo alla scrivania, dichiarando con sottile autoironia che per scrivere non le servono le gambe, ma la testa.
Convinta di avere solo tre anni di vita, come è stato il sofferto decorso paterno della malattia, tra il 1952 e il 1955 la O’Connor dedica ogni energia alla scrittura, che considera la sua vocazione. Pubblica su riviste di prestigio alcuni tra i suoi migliori racconti, e tra questi ne sceglie dieci…
«Bielorussia: identità ondivaga» di Fulvio Scaglione
«Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». I bielorussi che conoscono bene Eugenio Montale non possono non riconoscersi nei suoi versi. Perché il «ciò che non vogliamo» delle proteste popolari esprime quasi solo un «No» al potere di Aleksandr Lukashenko, corrisponde perfettamente al «ciò che non siamo». Ovvero a una Storia nazionale lunga, movimentata e perigliosa, che però si è quasi sempre definita per negazione: noi bielorussi non siamo questo né quello ma fatichiamo a pronunciare «la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro». Fatichiamo, insomma, a dire chi e che cosa esattamente siamo.
D’altra parte la Storia è quella e non mente. La Bielorussia è sempre stata terra di passaggio e di confine e la sua identità è multipla e sfuggente. Abitata nell’antichità da tribù baltiche (Terzo secolo) e poi da tribù slave (Quinto secolo) subentrate a quanto pare senza traumi bellici di rilievo, produce il primo mito costitutivo con i principati di Polack e Turau…
«The Race, la corsa che non ti aspetti» di Amleto De Silva
«L’editore sportivo mi aveva dato anche un anticipo di 300 dollari in contanti, la maggior parte dei quali era già stata spesa in droghe estremamente pesanti. Il baule della macchina pareva un laboratorio mobile della narcotici. Avevamo due borsate di erba, settantacinque palline di mescalina, cinque fogli di LSD super-potente, una saliera piena zeppa di cocaina, e un’intera galassia di pillole multicolori, eccitanti, calmanti, esilaranti… e anche un litro di tequila, uno di rum, una cassa di Budweiser, una pinta di etere puro e due dozzine di fiale di popper. Tutto ciò era stato rastrellato la notte prima, in un raptus di guida a tavoletta su e giù per la contea di Los Angeles – da Topanga a Watts, incamerando tutto quello su cui riuscivamo a mettere le mani. Non che per il viaggio avessimo bisogno di tutta quella roba, ma una volta che ci si trova risucchiati in una seria raccolta di droghe, la tendenza è di spingerla più in là che si può». (Hunter S. Thompson, Paura e disgusto a Las Vegas)
Devo confessare che diffido un po’ (e per po’ intendo parecchio) delle serie tv su Sky. Non me ne voglia chi se ne occupa, ma nonostante il catalogo decisamente buono ci sono parecchie défaillances, tipo The Wire mancante di sottotitoli in italiano, insieme a cose veramente pregevoli (il recupero della formidabile Luck…
Alla prossima!