Gli imperdibili di Tortuga #23
"Amo lo scorrere, la vastità, la meraviglia della vita": intervista a Giuseppe Conte. Fran Lebowitz come una katana giapponese; la vita agra di Piero Ciampi; gli eventi Tortuga al Longlake
Conte: «scrivere è trovare il nesso tra natura, mito e linguaggio» di Giulio Marioni
Giuseppe Conte scrive ancora poesia ventosa e severa. Sempre attinge a un patrimonio universale. Svela, non inventa. Crede alla luce, così come ci credeva Goethe, perché anche per lui c’è bisogno di illuminare ogni materia inerte. E pratica con i suoi versi, con i suoi libri, una resistenza spirituale che passa dalla forma, dall’anima. Ha appena vinto il Premio di Poesia «Celle Arte e Natura». E, per lui, sarà piantato un albero nel Parco della Collezione Gori a Pistoia, dove tra mille opere – tra gli altri di Alice Aycock, Daniel Buren, Dani Karavan, Fausto Melotti, Robert Morris, Dennis Oppenheim – si può respirare lo spirito, profano al tempo, di un luogo che è come un’eresia coraggiosa, una riserva in cui i diritti dell’arte cominciano dove, in armonia, finiscono quelli della natura. Uno spazio che ha pensato, ormai molti anni fa, Giuliano Gori, patriarca della famiglia che ha aperto al pubblico la Collezione. Lo spirito non è cambiato negli anni.
Giuseppe Conte, Peppo Pontiggia diceva che fare concorrere gli artisti per un premio, uno contro l’altro, come in una gara sportiva, è di per sé un’idiozia. Ma ogni opera d’arte ha in sé, anche la più sperimentale, un desiderio di condivisione, di comunicazione che richiede e sembra esigere un riconoscimento. Quindi ogni premio letterario, da questo punto di vista, è legittimo. È l’occasione per un bilancio?
«Un premio, specialmente per un autore come me che è stato spesso frainteso, osteggiato, è una forma di incoraggiamento per guardare al futuro. Anche alla mia età quando il futuro…
«Le sentenze di Fran Lebowitz» di Bianca Fenizia
Se si tratta di prendere posizione, provare disgusto e riderci sopra, non ci sono problemi per Fran Lebowitz. Perché esprimere un giudizio, dall’uso dei colori primari alla lonza di maiale con prugne, dalla cattiva musica – praticamente tutta quella che non superi il limite del fastidio personale e dell’inutilità – all’avere animali domestici, è materia di sua esclusiva competenza. Umorista con grazia di una discesa libera di Isolde Kostner, attrice con disinvoltura e senza vanità, scrittrice suo malgrado, restia a combattere la sua stessa pigrizia e timore.
«Scrivo così lentamente che potrei farlo usando il mio stesso sangue e non mi causerei alcun danno» rivela in un’intervista al “Paris Review” nell’estate del 1993: il lavoro sulla frase richiede una riscrittura e una ricerca continua, «cambiandola per guardarla da un’angolatura diversa»…
«La vita agra, 53 poesie di Piero Ciampi» di Salvatore Setola
L’unico Ciampi a cui dovremmo dedicare piazze e strade in ogni angolo d’Italia è Piero, perché era tutto quello che non vogliamo più che gli artisti siano: l’amarezza della vita agra, il dolore di essere meschini e non saper essere altro, il sarcasmo, il cinismo, talvolta pure la violenza, in versi, narrata, che è la violenza più dannata, contro quel problema volgare che ci attanaglia tutti: andare, camminare, lavorare. Campare. E farlo per quegli spiccioli con cui comprarsi un’ora di sollievo sopra il collo di una bottiglia, tra le cosce di una sconosciuta, dentro un taxi per nessuna parte o una frittata di cipolle, «cose che non ho mai avuto tutte insieme», raccontò in un’intervista: la felicità è una sigaretta consumata; se arriva, arriva a mozziconi.
Piero Ciampi era un Modigliani anacronistico, uno nato nella città giusta – a Livorno, in via Roma, praticamente di fronte alla casa natale di Modì – ma pareva avesse sbagliato epoca pur azzeccandola in pieno. Non c’è niente di romantico o decadente nella sua vita raminga e balorda…
Alla prossima!