Gli imperdibili di Tortuga #24
Paolini: Ustica e la perdita dell’innocenza; The Ripper: la serie della settimana
«Paolini: Ustica e la perdita dell’innocenza» di Bianca Fenizia
Ci sono fine settimana di giugno in Italia che non si vede l’ora di staccare dal lavoro e tornare a casa; partire, anche solo per una breve pausa, oppure per la vacanza estiva. C’è chi fa lo sforzo di prendere l’auto, chi decide di prendere un treno, infischiandosene dei ritardi per godersi il paesaggio dal finestrino che cambia, come suggeriva Vittorio Zucconi, e c’è chi sceglie l’aereo. Il 27 giugno del 1980 sull’aereo di linea DC-9 Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo, ottantuno persone sprofondavano sul fondo del Mar Tirreno a largo di Ustica, qualche minuto prima delle 21.00. Se l’ipotesi del cedimento strutturale convinse pochi e per troppo poco tempo, la supposizione di una bomba – che su un volo con due ore di ritardo suggeriva una ricostruzione alquanto azzardata – venne presto messa in dubbio da una parola che solo a sussurrarla costringeva alla reticenza, al silenzio e all’intimidazione: missile. Sono passati quarantun anni dalla strage di Ustica, e quasi dieci ce ne vollero solo per chiamarla vergogna di stato nei tribunali. Perizie e dichiarazioni, occultamento delle prove e depistaggi e come ogni storia italiana che implica una responsabilità a partire dalle istituzioni per finire con le minacce dei singoli, sembra sempre opportuno parlarne il meno possibile, soprattutto quando vengono emesse sentenze in cui lo stato condanna lo stato per non aver prevenuto il disastro, per mancato controllo dell’area tramite il sistema radaristico e per ostruzionismo all’accertamento dei fatti. Sempre lontani dal poter sapere ancora chi e perché, ed univocamente a convenire sul come.
Eppure c’è chi in questi anni ha deciso di non raccontare la propria versione, ma di aprire i registri e le trascrizioni delle conversazioni, portare l’attenzione sulle incongruenze e tenere insieme i punti, sperando di ampliare i dubbi e le domande: Marco Paolini insieme allo scrittore Daniele Del Giudice con il testo teatrale I-TIGI Canto per Ustica…
«The Ripper, the pig is dead» di Amleto De Silva
A diciotto anni, Helen Rytka aveva appena avuto il tempo di cominciare a diventare adulta. Aveva vissuto l’infanzia e l’adolescenza costantemente sola e permanentemente privata del caldo abbraccio di un genitore. Tutto quello che voleva davvero era essere amata. Finda quando era piccola, insieme ai suoi fratelli, era stata sbattuta per tutta la vita da un posto all’altro, da una casa di cura all’altra in tutto lo Yorkshire, da Leeds a Bradford, da Knaresborough a Dewsbury. Alla fine è capitata a Huddersfield, dove è morta per mano dello Squartatore. Un rapporto preparato dalla polizia del West Yorkshire per il direttore dei pubblici ministeri ha riassunto la storia della desolante esistenza di Helen in queste poche parole: “Aveva vissuto una vita breve e triste”. (Wicked Beyond Belief – The Hunt for the Yorkshire Ripper, Michael Bilton, Harper Press)
Il filone dei documentari sui serial killer è vasto, come è giusto che sia. Il mondo non è affatto una ball of magic, come – sbagliando – diceva Dylan Thomas. È piuttosto una fossa biologica piena di sappiamo cosa, che regolarmente tracima e ricopre tutto quello che incontra, distruggendo ogni forma di bellezza e innocenza. Dite che sono pessimista? Può anche essere, ma questo non significa che io abbia torto. Amo questo genere di documentari, sebbene mi facciano orrore puro, proprio perché mi ricordano che tutto sommato mi è andata bene. Ora, veniamo a noi. Mi si chiederà perché recensisco questa serie-documentario se in fin dei conti parlano tutti della stessa cosa e cambiano solo le vittime e i killer. Beh, è presto detto: perché The Ripper non è una serie come tutte le altre del genere…
Alla prossima!