Gli imperdibili di Tortuga #25
"Boss" la serie della settimana; gli intrecci sonori di Valentino Santagati; voci di italianistica nel mondo: un'intervista di Luca Saltini a Jo Ann Cavallo
«Boss, il vero ritorno di Frasier Crane» di Amleto De Silva
Le foglie d’autunno si stavan sfacendo in polvere e l’odore di questa marcescenza era gradevole. L’aria non era balsamica, ma buona. Al calar del sole, il paesaggio assunse l’aspetto di un vecchio dagherrotipo color seppia. Il tramonto: uno slavaccio rosso all’orizzonte, verso la Pennsylvania, campanacci di pecore, abbaiare di cani sulle aie. Uno di Chicago poteva anche appagarsi d’una scenografia così povera. A Chicago s’impara a valutare il quasi-nulla. Di buon occhio guardavo quel modesto scenario: mi andavan bene i rossi sommacchi, le pietre biancheggianti, la ruggine delle erbacce, la parrucca di verde sul poggio, prospiciente le strade vicinali. Era più che gradimento. Era già affetto. Magari amore. L’influenza d’un poeta aveva forse contribuito al rapido sviluppo di quel mio sentimento per quei luoghi. (…) “Mi son data da fare per te. Non hai voluto saperne di Londra, di Parigi, di New York, no, macché! tu dovevi per forza venirti a seppellire qui, in questa orrenda, volgare, pericolosa città. Poiché in fondo sei rimasto un monello dei bassifondi. Il tuo cuore appartiene ai vicoletti lerci. Mi son data da fare a invitar gente…” (Saul Bellow, Il dono di Humboldt)
Se, come me, siete stati prima fan di Cheers e poi di Frasier vuol dire che, come me, avete nel cuore Kelsey Grammer, e che gli perdonate gli anni bui del dopo Frasier. In fin dei conti, è l’uomo che ci ha regalato più di dieci anni di perle e, insieme all’eccezionale David Hyde Pierce ci ha fatto rivivere i fasti di Oscar Madison e Felix Ungar prima e di Telespalla Bob e il suo fratellino alliffato Cecil Terwilliger. Certo, Grammer ha fatto e continua a fare cinema. Per me, che con i fumetti Marvel sono cresciuto, è stato una gioia vederlo nei panni di Henry Philip “Hank” McCoy, la Bestia, nella saga degli X-Men: eppure, niente di lontanamente paragonabile a Frasier. Ha provato una sit-com, all’epoca, ma è una cosa di livello talmente basso che la sua partecipazione è spiegabile solo con la sua dipendenza da alcool e droghe. Poi, dieci anni fa, è tornato alla grande con una serie da lui stesso prodotta e interpretata: Boss, che adesso trovate, finalmente, su Amazon Prime.
«La pace suona tra i mandorli» di Gioacchino Criaco
Esiste una terra dove la pace spira attraverso i suoni, muove fronde antiche di oleandri, ulivi. Scuote i mandorli dolcemente, fra il promontorio di pietra e la mano carezzevole di Eracle. Zefiro la guarda rapito, manda il suo refolo a riportargli le danze. Fra Leucopetra e Capo Spartivento, si muove placido il passo dei greci, in una terra senza tempo, immersa nel futuro arcaico, con una lingua che non conosce il futuro nei verbi, perché tutto è accaduto, e un popolo d’Avvento attende solo che si colga la saggezza, che la natura torni a informare il sentiero dell’uomo. Esiste una cultura che non è contro un’altra, una stirpe semplice che non ha mai portato guerra a nessuno. Sta a due passi da tutto, nel cuore dell’Occidente, continua a suonare una musica che appartiene al Creato: basta l’udito a coglierne il valore, l’utilità. C’è, fra l’Agrifà e l’Ammendolea, cullata dall’Aspromonte, la soluzione agli affanni. Servirebbe poco per capirlo. L’ascolto di un poeta immenso, Salvino Nucera. La prosa di un archivio vivente, Giuseppe Mario Tripodi. Gli intrecci sonori di Valentino Santagati che ridanno vita a una cultura rurale che si affidava all’udito più della vista, come via più facile per l’accesso al soprannaturale: presenze divine, anime trasmigrate, streghe e demoni in una dimensione sensibile. Un universo sonoro, che i pastori e i contadini, immersi in una concezione panica della natura, riuscivano a cogliere, a registrare, e restituire poi un mondo dominato dall’armonia.
Gli intrecci sonori sono la riproduzione esatta dell’interazione profonda tra i versi degli animali, la musica degli elementi naturali, le sonorità vocali umane. Valentino sceglie i timbri, sentieri ai cui lati si alzano armacie perfette…
«Voci di italianistica dal mondo» di Luca Saltini
Da una ventina d’anni, periodicamente emerge come un fiume carsico la notizia che l’italiano risulta essere la quarta lingua più studiata all’estero, dopo inglese, spagnolo e cinese. Il fatto sarebbe in sé molto incoraggiante, ma la realtà è che non esistono fonti attendibili per poter fare un’affermazione di questo tipo, soprattutto per le aree esterne all’Unione Europea.
Ogni paese tenta di fare delle stime delle persone che si avvicinano alla propria lingua passando soprattutto attraverso gli istituti di cultura e le facoltà universitarie, senza avere però in alcun modo la possibilità di raccogliere informazioni su molti dei canali importanti attraverso cui avviene la formazione, ad esempio le scuole private. Tutte le indagini, del resto, sono condotte in modo autonomo, con criteri molto diversi e per questo non si prestano a un lavoro comparatistico. Nessuno quindi può dire quale posto davvero occupi l’italiano nella gerarchia dello studio delle lingue. Pare comunque che attualmente nel mondo oltre 2 milioni di persone si applichino per impararlo.
Quelli che lo parlano quotidianamente sono circa 70 milioni e vivono quasi tutti in Italia, non avendo il paese una tradizione coloniale come hanno avuto Inghilterra o Spagna. L’italiano del resto non è una lingua veicolare – per usare un termine dei linguisti – ossia un idioma usato da persone di lingue diverse per comunicare tra loro. Questo è il caso dell’inglese o del russo nell’area che fu l’Unione Sovietica.
Oltre a chi lo parla ogni giorno, ci sono – anche qui si tratta di una stima – circa 80 milioni di persone che hanno qualcosa a che fare con l’italiano e la cultura italica, ossia i discendenti di quegli emigranti italiani che a partire dall’Ottocento si sono spostati in cerca di fortuna verso varie parti del mondo. Queste persone non usano l’italiano per le loro comunicazioni quotidiane e nemmeno lo parlano abitualmente. Lo conoscono, magari soltanto in modo rudimentale, ma si identificano comunque nella cultura italiana come area di riferimento.
Con questi risultati, l’italiano si piazza al 21° posto al mondo quanto a diffusione, lontanissimo dalla massa di 1,2 miliardi di parlanti dell’inglese e 1,1 miliardi del cinese, ma ben distante anche dal mezzo miliardo circa dello spagnolo e dell’arabo.
Alla prossima!