Gli imperdibili di Tortuga #29
L'Afghanistan che verrà, di Fulvio Scaglione; in memoria di Amy Winehouse; Dogs of Berlin, la serie della settimana
«Nessun elicottero sul tetto dell’Afghanistan» di Fulvio Scaglione
L’8 di luglio, con il ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan ormai più che avviato, il presidente Biden ha affrontato i giornalisti americani. Si è infuriato quando qualcuno gli ha chiesto se l’uscita da Kabul di questo 2021 poteva essere in qualche modo paragonata alla fuga da Saigon del 30 aprile 1975. Biden ha avuto buon gioco nel dire di no, sottolineando che “questa volta non ci sarà nessun elicottero sul tetto”, riferendosi alla famosissima immagine degli ultimi americani e sudvietnamiti che lasciavano l’ambasciata prima dell’arrivo dei vietcong. Forse sulla spinta dell’emozione, Biden ha aggiunto: “Abbiamo smantellato Al Qaeda e ucciso Osama bin-Laden, la nostra missione è compiuta. Abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi per cui eravamo entrati nel Paese. Non siamo andati in Afghanistan per ricostruire il Paese, decidere quale sarà il suo futuro è diritto e responsabilità esclusiva del popolo afghano”.
La domanda davvero cattiva, e “giusta”, sarebbe stata un’altra. Il “missione compiuta” di Biden somiglia, drammaticamente e tristemente, al “missione compiuta” pronunciato da George Bush il 1° maggio del 2003 a bordo della portaerei “Abraham Lincoln”, pochi giorni dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq. La dichiarazione di Bush aprì per l’Iraq una stagione di violenze inaudita persino per il Medio Oriente, paragonabile per dimensione e atrocità forse solo all’irruzione dei mongoli e alla presa di Baghdad del 1258.
Quella di Biden è segnata da una clamorosa bugia: come si può seriamente sostenere vent’anni di guerra, occupazione militare, investimenti nel settore civile, battaglie anche nobili e condivisibili (per esempio, quella per l’istruzione delle ragazze), evidenti manovre per influenzare il quadro politico locale non abbiano anche avuto l’ambizione di costruire un Afghanistan “altro” rispetto a quello ridotto in macerie dalla guerra civile che, tra il 1994 e il 2001, i talebani dominarono…
«Amy Winehouse: il tempo della musica» di Bianca Fenizia
L’eleganza virtuosa di Sarah Vaughan che non precipita mai nell’ostentazione, la rabbia degli esclusi e diseredati in amore di Janis Joplin, il colore autunnale della rassegnazione di Etta James. Poche interpreti nella storia della pop music hanno raggiunto e sintetizzato i caratteri delle loro antesignane, nessuna è riuscita a sfidare il passato e a custodire uno stile personale come Amy Winehouse. Voce antica di decenni, come se seguisse i solchi dei dischi della Mercury Records per trovare i tratti distintivi del suo profilo, consapevolezza da veterana e ironia di chi sa il fatto suo, il tutto racchiuso in un corpo giovane, inesperto, bruciato nell’arco di ventisette anni: anche se il passaggio terrestre di Amy Winehouse è stato breve, di fatto il suo appetito musicale, come il talento, le ha consegnato il titolo di regina del soul a tempo indeterminato, tra passato, presente e futuro. Una maratoneta che ha attraversato tra vertigini di alti e bassi, come i suoi fraseggi jazz, i primi dieci anni del duemila in velocità, a ritmo di premi e cadute, scuotendo la testa con acconciatura da Ronettes, sugli echi di Phil Spector.
E se c’è qualcuno che continua a investigare nei videotape amatoriali di amici e parenti – tra tutti il regista Asif Kapadia con il suo documentario Amy – The Girl Behind The Name (2015) – cercando di istruire un processo di colpa sul perché delle dipendenze, cosa e chi l’abbia indotta a cominciare e sul perché nessuno intorno abbia cercato di fermarla, gli anni trascorsi dal 23 luglio del 2011 non hanno oscurato la passione e l’unicità della cantante londinese, mettendo in luce ciò che veramente le importava: fare musica sì, ma a modo suo, amando e consumando il jazz dei dischi che collezionava sin da ragazzina, costruendo un suono per voce sola.
Come dichiara in un’intervista poco dopo l’uscita del suo primo disco, Frank (2003): «Penso che più la gente mi vede, tanto più si accorgerà che tutto quello che so fare bene sono canzoni. Quindi lasciatemi in pace e lo farò. Farò musica, ho solo bisogno di tempo per fare musica».
E sarà sempre il tempo la variabile con cui la Winehouse non riuscirà mai a competere e dominare. A 19 anni, dopo essere entrata…
«DOGS of BERLIN, mamma li crucchi» di Amleto De Silva
Da decenni le principali famiglie delle bande arabo-turche – i Rammo, gli Abou-Chaker, i Miri, gli Al-Zein – sono padrone delle strade in molte città tedesche, e per decenni la polizia le ha tollerate mettendo le loro malefatte tra parentesi, considerandole l’increscioso fenomeno collaterale di una minoranza, un po’ come fa con la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Molte famiglie provengono dalle minoranze arabe in Turchia emigrate in Libano. Da lì, durante la guerra civile degli anni ’80, sono partite per la Germania dove hanno chiesto asilo e sussidi. E alcuni di questi boss e i loro rampolli, che posseggono immobili, ricchezze immense e si scorrazzano per le vie dei centri con Mercedes, Ferrari o Lamborghini intestate alle madri o alle nonne, sono ufficialmente disoccupati e hanno incassato per anni il sostegno al reddito Hartz IV. (articolo di Tonia Mastrobuoni, Repubblica)
Sono ancora uno di quelli che pensa che l’arte, in generale, non possa esimersi dal raccontare la realtà da un punto di vista privilegiato. Anche politico, perché no. Perché era politico il Picasso di Guernica ma lo era anche quello delle Demoiselles d’Avignon se per politico intendiamo la capacità di raccontare il mondo. Non dico che sia un dovere, per l’arte: sono solo convinto che sia intrinseca alla sua natura. Ecco perché, più o meno – più più che meno – tendo a disprezzare sia quelli che gironzolano nei pressi del loro ombelico per poi raccontartelo, sia i puri e duri, per i quali ogni cosa che non sia dichiaratamente politica è un tradimento del proletariato, e ovviamente si sentono in dovere di comunicarcelo dall’alto delle articolesse su giornali non propriamente sovietici. La verità è che, quando fai questo mestiere (l’artista, perché di questo si tratta), quando pratichi questa arte scontrosa, se sei in buona fede, allora le cose che ti vengono fuori sono belle. Sto parlando della serie di questa settimana, Dogs of Berlin, che trovate su Netflix, diretta, prodotta e sceneggiata da Christian Alvart, e che è di una bellezza…
Tortuga va in vacanza! Ci rivediamo a Settembre!