Gli imperdibili di Tortuga #4
Baudelaire: a 200 anni dalla nascita un'intervista impossibile; la biografia italiana di Flannery O'Connor; in memoria di Billy Wilder; Morselli, il disturbatore della quiete editoriale.
«Baudelaire: “Mi sono accontentato di sentire”» di Marco Ciriello
«Che noia, ma come avete fatto a diventare ancora più noiosi e borghesi in questi anni?».
E lei, Baudelaire, che ha fatto in tutto questo tempo?
«Ho preso una laurea in farmacia, e la croix d’honneur me l’ha consegnata Napoleone. Sono diventato amico di Poe, discuto di musicalità con Wagner. Ho avuto una storia con Silvana Mangano. Esco a bere con Diderot, Céline e Gide: siamo anche andati in India insieme e André è voluto rimanere a Calcutta. Litigo con Pascal e Voltaire, e quasi tutto continua a farmi orrore».
C’è qualcosa da salvare oggi?
«Rihanna, non vedo altri Demoni».
E niente altro?
«Ha visto la mia Francia? Vuole che salvi Macron? Potrei salvare Depardieu perché è fuggito in Russia come io scappai in Belgio, ma c’è poco altro. Potrei salvare la Francia solo se fosse un oggetto da impugnare per colpire, ma è un paese non impugnabile, solo punibile»
«Flannery O’Connor: vita violenta di campagna» di Luca Saltini
Dopo molto tempo di noncuranza, qualche anno fa si è assistito in ambiente italofono alla riscoperta della straordinaria figura di Flannery O’Connor, una delle più significative scrittrici americane del Novecento. L’impatto con la sua opera – e il suo personaggio – non è stato dei più semplici, avvolto da un certo pregiudizio e quasi da una insofferenza da parte di alcuni settori della critica.
È sufficiente leggere a questo riguardo la prefazione di Fernanda Pivano al suo romanzo La saggezza nel sangue (Garzanti, Milano) per rendersi conto della problematicità dell’approccio all’opera di questa autrice. Il problema non riguarda soltanto la cultura italiana, ma nasce già in seno a quella statunitense ed è motivata dalla fede religiosa di Flannery O’Connor.
Questo aspetto non è secondario nell’opera della scrittrice. Al contrario, ne costituisce il cuore profondo.
«Billy Wilder: il regista alla fine di un mondo» di Bianca Fenezia
Niente è più esaltante che essere spettatori della fine, almeno nel cinema, secondo Federico Fellini. In un’intervista del 1979, il regista racconta ad Eugenio Scalfari che il suo momento preferito durante le riprese è la demolizione del set, una volta girata l’ultima scena: «Tutto il mondo fantastico che abbiamo creato insieme e che abbiamo fatto vivere per settimane e mesi viene distrutto, il cartone e le luci artificiali spariscono. Quest’operazione distruttiva mi dà una gioia indicibile, e me la vedo fino all’ultimo».
A differenza del contemporaneo, che vacilla ed è in perenne attesa dell’apocalisse, l’universo cinema, proprio per la sua costruzione, non teme di mettere la parola fine nel percorso: che sia film da fine del mondo, lieto fine o fine di una storia, o anche riscrittura del finale – come fa Tarantino con il salvataggio di Sharon Tate dalla strage di Cielo Drive in Once Upon a Time in… Hollywood – l’epilogo è solo parte di un’eterna rigenerazione, una tappa della dialettica hegeliana, un momento per rinascere e ripartire. Ed è proprio da questa prospettiva, da spettatore di un’apocalisse, da San Giovanni a Patmos in pellicola, che Jonathan Coe nel suo ultimo romanzo, Io e Mr Wilder (Feltrinelli, pp. 240, euro 16.50, trad. di Mariagiulia Castagnone), decide di ritrarre il regista di A qualcuno piace caldo e L’appartamento.
Un libro-omaggio ad uno dei più grandi artisti del Novecento, ma anche un saggio sulle transizioni del cinema e della vita, e la volontà di non lasciarsi sopraffare.
«Morselli, il disturbatore della quiete editoriale» di Marco Ciriello
Due vite, un solo corpo a dividerle. La prima: reale, spesa a scrivere e ad essere rifiutato. La seconda: trasposta, che aleggia fra consensi e trionfi. La normalità e il sogno. L’ufficiale e il saggista. L’agricoltore e lo scrittore. Guido Morselli è stato il muro che le spaccava in due, che lo separava dai suoi desideri, fino a quando non ha puntato una Browning alla tempia e ha fatto fuoco, notte fra il 31 luglio e il 1° agosto del 1973, «non ho rancori». Dopo, purtroppo, è stato tutto più facile.
In precedenza ha saputo da solo per trent’anni di essere un grande scrittore, non avendo trovato nessun editore disposto a pubblicare i suoi libri. Che il suicidio sia venuto o meno dalle chiusure e dai rifiuti delle grandi case editrici italiane non ha importanza. In seguito l’hanno scoperto in molti, ma il dramma si è consumato prima, nell’attesa.
Alla prossima!