Gli imperdibili di Tortuga #5
Primo Levi e Philip Roth 34 anni dopo; Ramuz, un romanzo per il nostro tempo; Ancora per Edmondo Berselli; 60 anni dopo il volo di Jurij Gagarin
«Roth e Levi: il vizio del lavoro» di Marco Ciriello
Quando Philip Roth va a Torino, nel settembre 1986, per intervistarlo, mancano sette mesi al suicidio di Primo Levi. I due scrittori hanno cominciato a parlare nella primavera precedente, a Londra, e Roth sembra incuriosito principalmente da due cose: della fabbrica di vernici dove Levi ha lavorato e della sua capacità di restare nello stesso contesto – famiglia (la moglie Lucia, la madre e la suocera e i figli a poca distanza), città, quartiere (che gli ricorda la West End Avenue di Manhattan, per il flusso di automobili, bus e tram) e ovviamente fabbrica – per tutta la vita, dopo lo squarcio Auschwitz.
Roth è probabilmente il primo scrittore ad aver capito che Primo Levi non è solo il Testimone di uno dei più grandi orrori dell’umanità, la Shoah, ma è uno scrittore fuori dal comune, capace di uscire dal tempo restando sempre nello stesso posto.
«Derborence: il romanzo giusto per il nostro tempo» di Jacopo Guerriero
É un aneddoto di Herbert Lottman, il corrispondente del Publishers Weekly da Parigi, nel dopoguerra – un passo della monumentale biografia che egli volle dedicare ad Albert Camus: era l’agosto del 1936, l’Europa sull’orlo del precipizio. Scendeva in treno dalle Alpi all’Adriatico, il giovane scrittore francese, nella luce degradante del pomeriggio – ombre ad avvicinare le trame delle case dal finestrino. Da Vienna fino a Venezia, verso i Monti Berici.
«Egli era come in attesa di qualcosa». E «sorrideva, indicava, in una parentesi di serenità, alla moglie Simone (ormai già un’estranea) un particolare del paesaggio».
All’amico Yves Bourgeois, che li accompagnava, tornavano alla mente «i loro giorni felici». In effetti: «Ero pronto per la felicità» – scriverà poi di quei giorni lo stesso Camus in La mort dans l’âme. Come un nume tutelare, fu come un’epifania a sugello di «quel pomeriggio d’estate di pura estasi» (ancora Lottman), che nel tremolare sanguigno della luce dello scompartimento a Camus parve di riconoscere nel viaggiatore di età venerabile, altero, silente, seduto in un angolo, lo scrittore svizzero francofono Charles-Ferdinand Ramuz.
(Esistono momenti che sono come un’immersione: nell’inerzia e nella magia della dimenticanza, tempo e cultura sembrano appaiarsi. Andò così, forse).
«Jurij Gagarin e il futuro sprecato» di Giovanni Savino
Gagarin, ja vas ljubila (Gagarin, l’ho amata) è una canzone del 2001 di un gruppo musicale russo-ucraino, gli Undervud (dal nome della Underwood, leggendaria macchina da scrivere) diventata una delle principali hit d’inizio secolo. Erano passati quarant’anni dal primo volo di un essere umano nello spazio, l’Unione Sovietica già apparteneva per alcuni al passato prossimo, ma la leggenda del cosmonauta era stata in grado di resistere ai crolli geopolitici e agli sconvolgimenti sociali che avevano travolto il paese.
Di anni ne son passati sessanta, e Gagarin ancora oggi è una figura in grado di unire, anche al di fuori degli attuali confini russi. Essere il primo uomo nello spazio non è impresa da poco, ma questo non basta a spiegare il perché di una popolarità che coinvolge tutti, una icona che però non ha nulla della distanza di cui si nutrono gli idoli e il loro ricordo. Forse sarà stato per quel sorriso sconfinato nelle fotografie, forse sarà stato il suo «poechali!» (andiamo) in risposta ai comandi per il lancio del razzo Vostok, detto con grande naturalezza come se si fosse trattato di andare a farsi una birra, ma il fascino di Gagarin non è racchiuso solo nei 108 minuti in orbita attorno al pianeta Terra.
Il volto del primo cosmonauta è la faccia di un’epoca particolare della storia sovietica, dove le speranze si confondono con le delusioni e le possibilità di sviluppo vengono evocate ma difficilmente realizzate, nel contesto delle contraddizioni allora presenti nella società.
«Il canone Berselli» di Marco Ciriello
«Io sono uno che scrive», sì, un giornale intero. Da cima a fondo, primeggiando in ogni sezione e scrivendo fuori dal canone giornalistico. Perché Edmondo Berselli incarnava il canone berselliano, una strana forma di scrittura che riusciva a raccontare tutto, ma proprio tutto, senza mai annoiare. Ogni suo articolo è un blob che si trasforma: parte fumetto e diventa cinema bordeggiando il racconto passando dal ritratto senza mai farsi sermone e c’è anche la colonna sonora. Portava lo stupore guardando e restituendo i fatti, le persone, le città, la tivù, le partite, i film, il teatro, e via così, in un lungo elenco di cose che ci stava da sempre, ma sembrava che aspettasse lui per rivelarsi. Aveva uno stile unico, generato e non creato da un percorso strano: da correttore di bozze e lettore infinito, come Quentin Tarantino con le videocassette, un apprendistato solitario e fantasioso che annodava mondi lontanissimi.
Era pessimista ma – come Zavattini – se ne dimenticava sempre, riuscendo a trovare una possibilità anche nei pozzi più bui della storia italiana. Poteva essere severissimo e sul più bello mettersi a fischiare, scrivendo, s’intende, perché anche se diceva di non essere bravo a suonare aveva tanta musica dentro e l’ha piazzata in ogni sua pagina.
Alla prossima!