Gli imperdibili di Tortuga #7
Nori, il miglior salmodiante italiano; Collodi e Guareschi, gli autori di lingua italiana più tradotti; poi Eco, come scrivere il bestseller di qualità; l'istituzione del folk, Peggy Seeger
«Nori: dei fatti suoi, nostri e di Dostoevskij» di Marco Ciriello
L’unico scrittore italiano che quando racconta i fatti suoi non mi annoia è Paolo Nori. Se poi oltre i fatti suoi mi racconta anche quelli di Fëdor Dostoevskij, allora sono ancora più contento.
Credo che sia tutto merito del come scelga certi fatti suoi e come li usi per raccontare i fatti di Dostoevskij e viceversa, tanto che scrivendo una specie di romanzo che è anche una specie di biografia dello scrittore russo – sanguina ancora. l’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij (Mondadori) – sembra che tutto combaci, che Dostoevskij sia vissuto per farsi raccontare da Nori e dargli la possibilità di raccontarsi.
Che poi la letteratura è questa cosa qua: gente che racconta i fatti suoi, inventati o meno, quelli che ha in testa e quelli che ha davanti o alle spalle, con un certo ritmo, meglio se incrociando più piani.
Ecco, Nori, dovessi dire, è un salmodiante, il miglior salmodiante italiano, il secondo è Giovanni Lindo Ferretti, che, però, col tempo ha perso ironia. Invece, Nori, sembra nutrirsi di una ironia finissima, pare che abbia un orto di ironia dietro casa, e ogni tanto esce, pesca, torna, la mette in pagina e…
«Collodi e Guareschi: scrittori satirici e popolari» di Guido Conti
Due umoristi nell’olimpo degli autori più tradotti nel mondo: Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, e Giovannino Guareschi, due scrittori che collaborano e creano giornali umoristici (Il Lampione Collodi, Candido Guareschi), due autori che fanno parte di quella tradizione satirico-umoristica che non troverete mai citata nelle storie della letteratura tra Otto e Novecento. Due scrittori che guardano al pubblico inventando un italiano raffinato e popolare insieme, che sembra inattaccabile dalle ruggini del tempo, riscuotendo un successo enorme che non conosce pause. Entrambi sono scrittori messi in ombra dai loro personaggi, Collodi da Pinocchio, Guareschi da Don Camillo, Peppone e il crocifisso che parla (è una triade non una coppia comica, come ho scritto nella mia biografia Giovannino Guareschi, un umorista nel lager, Rizzoli, 2014). Inoltre dovrebbe far riflettere il fatto che entrambi sono autori di favole: il Pinocchio e le «favole vere» di don Camillo come le definisce lo stesso Guareschi, autore tra l’altro de La favola di Natale scritta e recitata in campo di concentramento tedesco la notte di Natale del 1944.
Collodi, vincitore della classifica degli autori più tradotti al mondo è stato critico d’arte e di musica, un creatore di giornali, traduttore delle favole della tradizione francese (I racconti delle fate 1875), è stato un giornalista che ha collaborato a testate per grandi e per l’infanzia, (non vi ricorda questo il lavoro di Guareschi, di Cesare Zavattini e di Gianni Rodari?) e ha scritto opere teatrali e antologie per le scuole dell’infanzia.
«Eco: come scrivere il bestseller di qualità» di Renato Giovannoli
Sospetto che sia stato soprattutto il successo de Il nome della rosa a sollecitare negli anni ottanta il dibattito italiano sul «bestseller di qualità» (iniziato con il saggio di Gian Carlo Ferretti del 1983 Il bestseller all’italiana. Fortune e formule del romanzo «di qualità»), e se con questa etichetta vogliamo intendere non semplicemente un bel libro che inaspettatamente si è imposto sul mercato, ma un libro colto, oltre che bello, e che almeno a posteriori sembra progettato per piacere anche alle masse, sono certo che Eco di un tale genere letterario possedesse il segreto. Non voglio dire che Il nome della rosa sia stato «scritto al tavolino», se non altro perché il tavolino non sarebbe bastato e ci volevano anche il genio e la vasta ma profonda cultura del suo autore, ma non mi pare irrilevante il fatto che Eco, avendo studiato la cultura di massa, conoscesse bene le ragioni della qualità al tempo stesso poetica e «popolare» di certi suoi miracolosi prodotti.
Nell’introduzione del 1962 ad Arriva Charlie Brown!, confluita due anni dopo in Apocalittici e integrati, osservava che i fumetti di Schulz (il corsivo è mio) «affascinano con uguale intensità i grandi sofisticati e i bambini, come se ciascuno ci trovasse qualcosa per sé […], fruibile in due chiavi diverse». E in un articolo del 1975 per L’Espresso, poi incluso nel 1977 in Dalla periferia dell’impero, ha scritto a proposito del film Casablanca: «Quando tutti gli archetipi irrompono […], si raggiungono profondità omeriche. Due cliché ci fanno ridere. Cento cliché ci commuovono».
Credo che le due regole che si possono ricavare da queste due affermazioni ci aiutino a spiegare l’enorme fortuna de Il nome del rosa e le sue oltre cinquanta traduzioni.
«Il folk e l’impegno di Peggy Seeger» di Mario Colella
Peggy Seeger, classe 1935, è una istituzione del folk: ha attraversato gli anni del maccartismo, cantato la lotta per una società diversa ed è stata compagna di vita di Ewan MacColl, poeta, attore e songwriter con cui ha scritto il classico The First Time Ever I Saw Your Face; Peggy Seeger ha inciso per la Folkways Records dischi fondamentali per il movimento del folk revival e ora, all’età di 85 anni, torna con un album prezioso e a tratti commovente, First Farewell, uscito il 9 Aprile.
Un’occasione per riscoprire il profilo di un’artista che ha saputo coniugare nel tempo la canzone di protesta e la ballata intimista, la purezza del folk americano e la ricerca, narrazione e politica.
Alla prossima!