Gli imperdibili di Tortuga #8
Mozart, tutto nel libro di Marco Murara; Cettina Caliò: l'indagine dell'assenza; la realpolitik di Tina Pica;
«Mozart: noto, sconosciuto e sublime» di Armando Torno
Sir Neville Marriner, interprete tra i più apprezzati delle opere di Wolfgang Amadeus Mozart, soleva confidare a chi si complimentava con lui quando scendeva dal podio: «This music touches the sublime», cioè «Questa musica tocca il sublime». Capitò anche a chi scrive di ascoltare la battuta. Correva il 1991, secondo centenario della morte di Mozart: Marriner diresse nella chiesa di san Marco a Milano l’Academy of St Martin in the Fields. Il vostro cronista fece da speaker alle due registrazioni realizzate da Rai2 – regia di Luciano Arancio – e discusse con il maestro i testi che presentavano le esecuzioni.
Già, il sublime. Fascinoso concetto, elaborato tra il I e il II secolo dai neoplatonici, la sua storia resta legata all’opera nota come lo scritto dello Pseudo-Longino; o, se si vuole, detto Anonimo del Sublime. Da allora, e soprattutto nel XVIII secolo e in quello successivo, sempre più pensatori s’interrogarono su di esso. L’arte più alta, con le sue esigenze di mistero e ineffabilità, può indurre uno stato di estasi senza flettersi alle spiegazioni della ragione; anzi, è lei stessa a cercare le emozioni.
Si comporta come la bellezza quando, per ordine dell’occhio, entra deglutendo in voi; e la sentite scendere oltre la gola, forse perché cerca qualcosa da stringere.
Mozart, insomma, ha conosciuto o evocato il sublime. Per un critico la differenza può essere notevole, ma per noi, ascoltatori di un’epoca in cui la musica sembra caduta in disgrazia, poco conta. Wolfgang Amadeus è sublime, per esempio, quando con pochissime note che volano oltre il pensabile, dà vita al duetto di Susanna e della Contessa ne Le nozze di Figaro. Oppure ecco materializzarsi quell’idea inafferrabile quando, nel secondo movimento del Concerto per pianoforte e orchestra n. 27, K 595, un “Larghetto” ipnotico insegue i sussurri di un’esistenza consegnata alla nostalgia: note dolcissime e al tempo stesso venate d’angoscia, forse nate da un dialogo con la dimensione delle assenze. Il maestro ormai le avvertiva.
Tutto questo viene alla mente sfogliando i due densi volumi dal titolo Mozart. Le cronache, che Marco Murara, già traduttore dell’epistolario completo del musicista, ha raccolto in un’opera pubblicata per l’editore Zecchini. E’ una prima mondiale. Due tomi, con una prefazione di Angelo Foletto, in cui dal 1756 al 1792, ovvero dal registro battesimale della parrocchia del duomo di Salisburgo sino ad altri documenti che seguono l’anno della morte, il curatore ha riunito 2003 testi riguardanti la biografia mozartiana.
«Cettina Caliò: l’indagine dell’assenza» di Bianca Fenizia
È il rabbino medievale e studioso della Torah, Rashi, a dare una spiegazione sulla forma della bet (ב), seconda lettera dell’alfabeto ebraico. Un carattere chiuso dai tre lati e aperto solo alla sinistra, come se fosse una casa con la porta spalancata sul mondo. Un segno che non vuole essere solo fonema o suono, ma un monito: all’uomo non è concesso interrogarsi su tutto, ma solo su quello che è accaduto dopo la creazione; non su quanto accadde prima, e nemmeno su quello che avviene nell’alto dei cieli o, in basso, nel regno dei morti. All’uomo, la lettera bet sembra suggerire che nella «casa del mondo» possa occuparsi solo dell’avvenire: pericoloso e non opportuno è mischiare tempi e spazi, perché l’equilibrio dell’universo si basa sulla separazione degli elementi. Una simmetria che non ha paura di scardinare Cettina Caliò con la sua raccolta di poesie Di tu in noi (La nave di Teseo, pp. 96, euro 17), una silloge che non smette di ruotare per tutto il suo corso intorno al «tu» a cui il titolo fa riferimento: la dissolvenza, l’assenza e il nuovo «stare precario» del marito scomparso, lo scrittore Sergio Claudio Perroni.
Tre sezioni come tre movimenti di sonata, tre capitoli che corrispondono a tre tempi diversi, in cui il passato gioca con incoscienza ad anticipare il futuro, il presente a recuperare il remoto e il prossimo incerto a disegnare un futuro…
«Tina Pica, il nostro angelo custode» di Amleto De Silva
Tu sarai eremita quando io sarò badessa. (Pane, amore e…, Dino Risi, 1955)
Tenere testa al cinema a Totò, a Peppino, a Vittorio De Sica, alla Loren, a Franca Valeri, a Sordi, era quasi impossibile. Se non eri almeno loro pari, ti fagocitavano. Non per cattiveria, e nemmeno perché, come attori, erano più bravi o più belli, no. Era una questione di carisma, puro e semplice, e questa donnetta minuta e spigolosa, nata poco prima della fine dell’800 e che avrebbe superato due guerre mondiali, una pandemia e numerosi lutti personali, il carisma ce l’aveva eccome. Tina Pica, nata (ovviamente, a Napoli) Concetta Luisa Annunziata Pica era una che non bucava lo schermo: lo riempiva. E ci riusciva sempre rifiutando il ruolo da protagonista, anche quando la protagonista del film era lei.
Non c’è una volta in cui non prenda il comando di una scena, di un dialogo. Perché Tina Pica era una moralizzatrice buona, una che ti riportava, sempre, chiunque tu fossi, sulla terra. Per fisico e tono di voce, sulle prime, dava sempre l’impressione di bizzoca, perché era esattamente quello che voleva fare: voleva che tu, spettatore, la pensassi bigotta, solo per poi colpirti con la sua personale realpolitik tutt’altro che da parrocchia.
Quando, in Pane, Amore e Fantasia (Luigi Comencini, 1953), De Sica le chiede se il paese lo trova simpatico, risponde che sì, e quando il Maresciallo insiste e le chiede chi, esattamente, pensa che sia simpatico, risponde, muovendo allusivamente le mani in circolo: la gente, la gente…
Alla prossima!