Gli imperdibili di Tortuga #9
L'amore al tempo del colera; a Zurigo Solženicyn corpo a corpo con Lenin - intervista a Rapetti; Sergio Atzeni, il custode del tempo; Giacomo Furia, storia di un caratterista
«L’amore a Napoli al tempo del colera» di Marco Ciriello
Nessuno pensa a I guappi quando si parla di Claudia Cardinale. Eppure è quello il film che le cambia la vita. Era già stata Carmelina Nicosia, Assuntina Jacovacci, Barbara Puglisi, Paolina Bonaparte, Ginetta Giannelli, Fedora Santini, Aida Zepponi, Mara Castellucci, Rosa Nicolosi, Giuditta Di Castro e poi Claudia, Angelica e Jill, ma non era se stessa. Non era libera.
È solo dopo aver interpretato Lucia Esposito, che diventa un’altra donna.
8½, Il Gattopardo, C’era una volta il West avevano consolidato l’attrice, non la donna. La ragazza era perduta fuori dallo schermo quanto più si ritrovava nelle proiezioni sullo schermo. Era passata da Monicelli a Germi, da Damiani a Magni, da Comencini a Bolognini, Maselli e Zurlini, oltre la tris Fellini, Visconti e Leone, da un set all’altro, da un capolavoro all’altro, giocando, come solo Marcello Mastroianni, ma era una prigioniera del cinema, come si accorse Oriana Fallaci.
Perfetta in ogni posa, a pezzi fuori. In un rovesciamento: era intera nei pezzi di vita riscritti per il cinema, e a pezzi nel lungo piano sequenza che è la vita.
Un cyborg che eseguiva gli ordini, prigioniera di un contratto con Franco Cristaldi, che nella bocca e nei pensieri di Claudia non è mai stato Franco, ma solo Cristaldi. Un cognome che serviva a misurare la lontananza. Cristaldi è lo scopritore che si fa tiranno, padrone e marito…
«Sergio Rapetti: alla scoperta dell’arcipelago Solženicyn» di Jacopo Guerriero
L’esilio dall’URSS di Solženicyn, nel 1974 dopo la pubblicazione di Arcipelago Gulag, la battaglia al fianco degli scrittori ed esponenti delle associazioni per i diritti civili in URSS, costretti all’emigrazione e spesso non accettati dalla «cattedra progressista» in Occidente, quindi il rapporto con il premio Nobel Svetlana Aleksievič di cui ha tradotto la maggior parte della pentalogia sull’«uomo rosso»: sono almeno tre avvenimenti, tre fili d’Arianna, che Sergio Rapetti, storico traduttore del dissenso russo, non può rinunciare a raccontare anche dopo l’intervista fiume che abbiamo pubblicato (e per cui gli siamo grati).
Allora ripartiamo da Zurigo. Dall’esilio di Solženicyn. Che so ritieni imprescindibile anche per il nostro tempo.
«Nel gennaio 1974, Solženicyn era stato arrestato immediatamente dopo la pubblicazione del primo volume dell’Arcipelago Gulag a Parigi, privato della cittadinanza e subito espulso dall’URSS. Di lì a pochi mesi, prima dell’estate, ho avuto occasione di incontrarlo e con lui la famiglia. In quei mesi del 1974, Solženicyn, prima di immergersi nelle ricerche e stesura dei capitoli dedicati a Lenin a Zurigo, si stava personalmente occupando della questione della pubblicazione delle sue opere in Occidente, potendole finalmente sottrarre a edizioni incontrollate.
Riguardo all’edizione di suoi libri in Italia, Solženicyn, dopo avermi conosciuto, avrebbe chiesto al suo editore, Mondadori, presso il quale io già lavoravo come redattore, di volermi coinvolgere»…
«Sergio Atzeni, universale di Sardegna» di Sandro Di Domenico
Ha detto: faccio un tuffo e torno. E non è più tornato. È sparito; non per questo è sparita con lui la sua collezione.
Di storie e di racconti. Dalla notte dei tempi alla contemporaneità.
Quella della «ero», dei «pezzemmerda» e delle rockstar, delle «bagasse» in tv e delle presunte vergini in casa, di «quel giornalista che sembra sempre che gli hanno massacrato il padre, la madre, i fratelli, la moglie, i figli, i nonni, gli zii e gli hanno lasciato in vita i condomini». Quella parte di storia che non lascia dietro di sé insegnamenti. O per insegnamento ha il caos e quindi era stata in buona parte inutile, taciuta, evitata. Ritrovata in un ultimo racconto. Pubblicato postumo e arrivato al cinema, e in cui la vita diventa spietata, maleducata, cafona e baccagliante, una vita che già non gli apparteneva più.
La sua era racchiusa in favole ascoltate e ripetute 1000 volte almeno. Dalla notte dei tempi, fino a diventare antologia. La tradizione orale, consegnata a voce alle generazioni successive, e arrivata a noi come se fossimo gli ultimi nipotini, appena nati, in forma scritta. Attraverso il racconto. Il romanzo, l’antologia. Ed è questo tutto quello che oggi resta di Sergio Atzeni.
Universale di Sardegna.
Destinato a rimanere giovane uomo, santo protettore di un sapere antico. Conservatore ribelle, giramondo umile, fino a farsi pizzaiolo, legato a doppio filo alle origini. Della sua terra, dell’esistenza, del mondo, cui aveva rubato il racconto del tempo, ripassandoglielo come testimone…
«Giacomo Furia, il perdente del cinema italiano» di Amleto De Silvia
Ci sono attori ai quali rischi sempre di fare un torto. In genere succede a quelli che chiamiamo, un po’ ingenerosamente, caratteristi. Dico ingenerosamente sapendo di mentire, perché con la commedia italiana i nostri grandi registi sono riusciti, grazie a sceneggiature straordinarie e una capacità incredibile di gestire il casting, a trasformare il caratterista in una figura di primo piano: si pensi a Tiberio Murgia, Ferribotte, prelevato da Monicelli in un locale nel centro di Roma e diventato una vera e propria icona, o a Carlo Pisacane, il nostro amatissimo Capannelle. A un bravo caratterista basta un solo film per entrare nelle nostre vite e non uscirne più: solo che c’è chi lo fa grazie a una sceneggiatura ben scritta e chi, invece, ci mette del suo, e ce ne mette parecchio. È il caso di Giacomo Furia, il vaso di coccio del cinema italiano. In soli due film (i suoi più riusciti, in oltre cento girati) riesce a definire per sempre il ritratto del perdente rassegnato come non è più riuscito a nessuno.
Ne L’oro di Napoli (Vittorio De Sica, 1954) è il buon pizzaiolo Rosario, ammogliato immeritatamente con Sofia Loren….
Alla prossima!