«Bob Dylan ’66, l’artista del trapezio» di Salvatore Setola
La poesia si forma in bocca. Bob Dylan lo scoprì come l’uomo primitivo scoprì il fuoco, e il fuoco nel suo caso portava il suono di una chitarra elettrica. Era la Fender Stratocaster che imbracciò sul palco del Newport Folk Festival il 25 luglio del 1965, esordendo davanti a un pubblico sconcertato con una versione incendiaria di Maggie’s Farm. Quelli si erano preparati ad accogliere il nuovo Woody Guthrie e invece si ritrovarono ai piedi di un Buddy Holly ancora più acido e incarognito. Dylan non era più l’eroe della protesta folk che due anni prima aveva cantato Blowin’ In The Wind con Joan Baez incantando la platea? Non era più il contestatore sociale che vituperava i signori della guerra? La risposta volava ancora nel vento e lui stavolta l’aveva lasciata andare.
In quel 1965 Dylan diventa lui stesso vento, vibrazione risuonante, sensazione sonora. Tutta la sua storia da quel momento è storia fonetica, ricerca del suono-parola atto a creare l’immagine, evocare la visione...
«Dylan e l’incubo mistico degli anni Ottanta» di Giuliano Delli Paoli
Sorrisi, baci e abbracci negli studi Lion Share Recording il 22 gennaio 1985. La partecipazione è tanta e l’entusiasmo alle stelle. Il padrone di casa Kenny Rogers è al settimo cielo. Ma Quincy Jones è all’ottavo. L’arrangiatore per antonomasia e il produttore per eccellenza rimbalzano come una pallina pazza da un angolo all’altro della stanza. Del resto, anche per uno come lui non capita certo tutti i giorni ritrovarsi sotto lo stesso tetto con Michael Jackson, Stevie Wonder, Diana Ross, Ray Charles, Tina Turner, Cyndi Lauper, Billy Joel, Bruce Springsteen, Lionel Richie e Dionne Warwick, giusto per citarne alcuni. Si fanno chiamare USA for Africa, dove USA sta furbamente per United Support Artists, e sono un super collettivo formato da ben 45 celebrità della musica e riunitosi a Los Angeles per incidere We Are The World, singolo scritto da Jackson e Richie, il cui ricavato – oltre 100 milioni di dollari – sarà interamente devoluto al popolo etiope.
La causa è dunque di quelle nobili e segue il solco tracciato da Bob Geldof l’anno prima con lo storico Live Aid a Wembley. Il mondo della musica vive il suo primo grande amplesso nel nome della beneficenza…
«Bob Dylan e la grande fuga» di Bianca Fenizia
Cerimonia per la medaglia della libertà 2012, una delle massime decorazioni civili negli Stati Uniti, conferita dal Presidente. La Casa Bianca delle onorificenze ufficiali, da etichetta, per solennità e tradizione. Tutti i presenti hanno sguardi rivolti in direzione del palco e Barack Obama visibilmente non riesce a nascondere l’emozione sotto un sorriso da bambino soddisfatto, mostrando un’espressione che sembra suggerire: valeva la pena diventare presidente solo per giorni come questo, tanto che arriva a specificare, presentando l’artista designato: «Oggi, tutti, da Bruce Springsteen agli U2, hanno un debito di gratitudine con lui. Non c’è un gigante più grande nella storia della musica americana. Dopo tutti questi anni, sta ancora inseguendo il suono, ancora cercando un po’ di verità. E devo dire che sono un grande fan».
Giunge il momento dell’assegnazione e un nome viene pronunciato nel silenzio totale: Bob Dylan. Segue smarrimento, non accade niente, nessuna reazione del musicista, così da costringere Obama a ripetere «C’mon, Bob»…
«Bob Dylan, tra furto e trasfigurazione» di Mario Colella
All’alba della New Frontier di J.F. Kennedy, nel 1960, in un’America piena di speranze, in mezzo ad una generazione che si affaccia al nuovo decennio vivendo come nessuna prima la potenza dei corpi e aspirando ad un mondo pieno di rischi – passione, sesso, ideali – c’è un giovane che pare non aver alcuna intenzione di attendere il ritorno di Elvis imbottito di benzedrina dal servizio militare. Ecco, Robert Allen Zimmerman ha appena terminato il college e, dopo aver imbracciato decine di volte una chitarra acustica nelle coffe houses del Minnesota per suonare vecchi blues, fa rotta verso New York. Ci va per incontrare e stringere la mano al suo ultimo idolo, il poeta dei diseredati, dei disperati, degli hoboes: Woody Guthrie. L’uomo va spegnendosi nell’ospedale Greystone Park di Morris Plains nel New Jersey, ad appena 55 anni, e Bob riesce a visitarlo e a raccogliere in qualche modo un lascito, riassumibile nel seguente insegnamento: gli uomini sono uomini, null’altro. A partire dallo stesso Guthrie.
Lo spiegherà qualche anno dopo lo stesso Bob Dylan, diventato nel frattempo Bob Dylan (in precedenza era stato altre cose, anche un Blind Boy Grunt). Non è affatto un caso che Guthrie sia il suo ultimo idolo…
Alla prossima!